Questa volta vi parlo di un saggio che solo collateralmente riguarda le
religioni antiche, ma che ho trovato molto prezioso per capire la mentalità
antica a confronto con quella cristiana in particolare e monoteista in generale. Ecco un mio
commento alla lettura di La depressione è
una dea: i Romani e il male oscuro, di Donatella Puliga, Bologna, il
Mulino, 2017.
Non è semplice parlare di questo libro perché non è un libro semplice. Anche
se la scrittura scorre bene e non è mai pesante, richiede comunque un'infarinatura
di cultura classica per poter essere apprezzato e non risultare noioso, più una
discreta consapevolezza del significato clinico di "depressione".
Non si parla infatti di depressione nel senso comune del termine di
tristezza, demotivazione e quegli altri significati che fanno sbottare i non
depressi in una serie di consigli del tipo "datti una mossa", che
tanto fanno arrabbiare chi soffre di depressione clinica. Chi soffre di
depressione clinica endogena, sia unipolare che bipolare, anche se in un certo
senso può "darsi una mossa" perché le attività e la routine aiutano a
combattere la deriva, non ha le forze per farlo perché è malato. E questa è una
realtà che chi non ha ben chiara la differenza tra depressione-brutto momento e
depressione clinica fatica ad afferrare. La premessa a cura del prof. Cerù,
psichiatra, mette ben in chiaro questa differenza. Le scoperte che evidenziano
un difetto dei neurotrasmettitori, dell’amigdala, dell’ippocampo o del sistema
limbico alla base non solo della depressione ma di altri disturbi di competenza
della psichiatria sono molto recenti.
L'autrice va alla ricerca delle tracce di depressione nella cultura antica,
senza mai commettere l’errore di spostare nel mondo antico la psicologia
moderna o comunque concetti e idee che appartengono al nostro tempo e non al
loro: dai testi greci sulla melanconia, ai testi letterari e filosofici in cui
gli autori mostrano o discutono i sintomi di quella che oggi chiamiamo
depressione.
La ricerca ruota attorno a due punti principali: uno è quello dell'individuazione dei sintomi, nell'analisi di testi personali o filosofici, come l'epistolario di Cicerone o il De tranquillitate animi di Seneca, l'altro è quello linguistico che attraverso le metafore usate (pensate al nostro "depressione" cioè pressione verso il basso, essere schiacciati) contestualizza la depressione nell'ambito della cultura antica: come la vivevano, cosa evidenziavano, come si collocava in un contesto in cui la partecipazione del cittadino alla vita pubblica era così fondamentale?
La ricerca ruota attorno a due punti principali: uno è quello dell'individuazione dei sintomi, nell'analisi di testi personali o filosofici, come l'epistolario di Cicerone o il De tranquillitate animi di Seneca, l'altro è quello linguistico che attraverso le metafore usate (pensate al nostro "depressione" cioè pressione verso il basso, essere schiacciati) contestualizza la depressione nell'ambito della cultura antica: come la vivevano, cosa evidenziavano, come si collocava in un contesto in cui la partecipazione del cittadino alla vita pubblica era così fondamentale?
Troviamo che nella cultura antica è essenzialmente assente il concetto di
"colpa" connesso ai sintomi depressivi: più che nelle culture
successive è una malattia o una reazione, magari anche eccessiva, ma non una
"scelta" dell'individuo e certo non qualcosa da giudicare. Fanno
eccezione gli autori cristiani: sono loro, con l'appoggio dei filosofi
soprattutto stoici, sulle affermazioni dei quali però nutro sempre qualche
dubbio a causa dei noti problemi di trasmissione dei testi, a classificare
questi sintomi come una mollezza dell'animo che non segue la retta via. "Sei
depresso perché non ti dai abbastanza da fare, perché non fai le cose giuste,
perché sei pigro, perché sei viziato" sono cose che un depresso clinico si
è sentito dire o anche si è detto da solo e che fanno parte della cultura della
colpa e del peccato introdotte dal cristianesimo, che tuttora rendono difficile
accettare i disturbi dell'umore come malattie in primis e di conseguenza ne
ostacolano il trattamento. L'ultimo capitolo è dedicato alla letteratura
monastica, che nel periodo tardoantico individua nel demone dell'acedia,
o accidia, la causa dei sintomi depressivi nei monaci che sono insoddisfatti
della vita monastica: ecco che compare la colpa, perché il demone ha mano
libera perché il monaco non è sufficientemente disciplinato nel perseguire la
retta via e si fa distrarre da desideri mondani. Contemporaneamente, si
sradicano queste emozioni dall'uomo: non sono sue proprie, ma vengono
dall'esterno. Invece, ma questa è una differenza che si deduce e nel saggio non
è sottolineata a sufficienza (perché comporterebbe una presa di posizione
piuttosto netta riguardo i danni inflitti dal cristianesimo e dal monoteismo
creazionista in generale all’uomo), nella cultura antica non cristiana l’eventuale
intervento divino alla base della depressione o melanconia è più un topos letterario che una realtà in cui
gli antichi credessero: si vedano gli scritti medici, sia greci che romani, in
proposito. Se vogliamo scomodare il solito Walter Otto, potremmo dire assieme a
lui che quando la cultura antica parla di un dio che infonde un pensiero in un
uomo, è perché l’uomo sviluppa quel pensiero sulla spinta di una condizione
esterna che definiamo attraverso una divinità: Atena sorge nell’uomo, è il
momento numinoso che porta alla nascita del pensiero intelligente o strategico
ma non è un’entità esterna che dà all’uomo quello che altrimenti non avrebbe. Questo
vale per la cultura greca, ma tanto più per quella romana in cui le divinità
esprimono un’azione anziché un concetto (differenza questa fondamentale tra le
religioni greche e romane).
La cultura antica non cristiana è caratterizzata dall'equilibrio tra
elementi diversi, la prevalenza di uno dei quali genera squilibrio e quindi
patologia, ma tutti con eguale dignità nel mantenimento di un'armonia personale
e sociale. La depressione, ci spiega Donatella Puliga, in latino è
linguisticamente legata alla sfera del marcio, di qualcosa che sta fermentando
per poi morire, azione questa espressa dalla dea di nome Murcia. Ma per i
Romani il fermentato, nelle giuste dosi, era ottimo: un po' di garum, la
celebre salsa ottenuta fermentando le interiora dei pesci, dava sapore e
impreziosiva i piatti; troppo, o una salsa troppo fermentata, avrebbe rovinato
tutto. Così Murcia, come tutte le divinità romane, ha un ruolo nel pantheon, ma
quando domina da sola, senza Agenora che spinge ad agire e Stimula che toglie
le inibizioni, e a sua volta può essere patologica se è da sola, fiacca l'animo
dell'uomo.
Il saggio si struttura in sette capitoli, tutti ben
corredati di bibliografia. Quelli fondamentali sono i primi quattro, più l’ultimo
per le differenze tra le culture antiche e quella cristiana. Nel primo capitolo
si dà uno sguardo alla melanconia nei testi greci, in particolare medici; nel
secondo si affronta il problema della depressione nei testi latini, in
particolare in Cicerone, Lucrezio e Seneca, da un lato individuando nei loro
scritti delle testimonianze, dall’altro evidenziano le scelte linguistiche che
ci dicono molto sul modo in cui quella che oggi chiamiamo depressione si
collocava nel pensiero antico; nel terzo si parla (in realtà poco) della dea
Murcia ma soprattutto dell’ambito semantico in cui si collocano le metafore
antiche della depressione, appunto quella del marcio; nel quarto viene
presentata un’altra metafora, quella del veternus,
del consumato dal tempo. Seguono poi un intermezzo dedicato all’espressione
inglese “black dog”, un capitolo sui Tristia
di Ovidio, che però è abbastanza ripetitivo e non aggiunge niente di nuovo,
una breve incursione nel diritto romano, se la melanconia di uno schiavo dia il
diritto a chiedere un rimborso perché “difetto” che impedisce l’esecuzione del
lavoro per cui lo si è acquistato, e infine un capitolo sulla depressione nei
monasteri tardoantichi, in cui i sintomi depressivi vengono attribuiti all’accidia,
che a partire da Evagrio Pontico trova una sua definizione diversa da quella
antica (originariamente indicava l’incapacità di provare i sentimenti di lutto
appropriati ad una cultura basata sul legame familiare, sulla stirpe) e una
collocazione definitiva nei peccati capitali.
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