lunedì 30 aprile 2018

La depressione è una Dea (ma lo stigma è cristiano)


Questa volta vi parlo di un saggio che solo collateralmente riguarda le religioni antiche, ma che ho trovato molto prezioso per capire la mentalità antica a confronto con quella cristiana in particolare  e monoteista in generale. Ecco un mio commento alla lettura di La depressione è una dea: i Romani e il male oscuro, di Donatella Puliga, Bologna, il Mulino, 2017.
Non è semplice parlare di questo libro perché non è un libro semplice. Anche se la scrittura scorre bene e non è mai pesante, richiede comunque un'infarinatura di cultura classica per poter essere apprezzato e non risultare noioso, più una discreta consapevolezza del significato clinico di "depressione".
Non si parla infatti di depressione nel senso comune del termine di tristezza, demotivazione e quegli altri significati che fanno sbottare i non depressi in una serie di consigli del tipo "datti una mossa", che tanto fanno arrabbiare chi soffre di depressione clinica. Chi soffre di depressione clinica endogena, sia unipolare che bipolare, anche se in un certo senso può "darsi una mossa" perché le attività e la routine aiutano a combattere la deriva, non ha le forze per farlo perché è malato. E questa è una realtà che chi non ha ben chiara la differenza tra depressione-brutto momento e depressione clinica fatica ad afferrare. La premessa a cura del prof. Cerù, psichiatra, mette ben in chiaro questa differenza. Le scoperte che evidenziano un difetto dei neurotrasmettitori, dell’amigdala, dell’ippocampo o del sistema limbico alla base non solo della depressione ma di altri disturbi di competenza della psichiatria sono molto recenti.
L'autrice va alla ricerca delle tracce di depressione nella cultura antica, senza mai commettere l’errore di spostare nel mondo antico la psicologia moderna o comunque concetti e idee che appartengono al nostro tempo e non al loro: dai testi greci sulla melanconia, ai testi letterari e filosofici in cui gli autori mostrano o discutono i sintomi di quella che oggi chiamiamo depressione.
La ricerca ruota attorno a due punti principali: uno è quello dell'individuazione dei sintomi, nell'analisi di testi personali o filosofici, come l'epistolario di Cicerone o il De tranquillitate animi di Seneca, l'altro è quello linguistico che attraverso le metafore usate (pensate al nostro "depressione" cioè pressione verso il basso, essere schiacciati) contestualizza la depressione nell'ambito della cultura antica: come la vivevano, cosa evidenziavano, come si collocava in un contesto in cui la partecipazione del cittadino alla vita pubblica era così fondamentale?
Troviamo che nella cultura antica è essenzialmente assente il concetto di "colpa" connesso ai sintomi depressivi: più che nelle culture successive è una malattia o una reazione, magari anche eccessiva, ma non una "scelta" dell'individuo e certo non qualcosa da giudicare. Fanno eccezione gli autori cristiani: sono loro, con l'appoggio dei filosofi soprattutto stoici, sulle affermazioni dei quali però nutro sempre qualche dubbio a causa dei noti problemi di trasmissione dei testi, a classificare questi sintomi come una mollezza dell'animo che non segue la retta via. "Sei depresso perché non ti dai abbastanza da fare, perché non fai le cose giuste, perché sei pigro, perché sei viziato" sono cose che un depresso clinico si è sentito dire o anche si è detto da solo e che fanno parte della cultura della colpa e del peccato introdotte dal cristianesimo, che tuttora rendono difficile accettare i disturbi dell'umore come malattie in primis e di conseguenza ne ostacolano il trattamento. L'ultimo capitolo è dedicato alla letteratura monastica, che nel periodo tardoantico individua nel demone dell'acedia, o accidia, la causa dei sintomi depressivi nei monaci che sono insoddisfatti della vita monastica: ecco che compare la colpa, perché il demone ha mano libera perché il monaco non è sufficientemente disciplinato nel perseguire la retta via e si fa distrarre da desideri mondani. Contemporaneamente, si sradicano queste emozioni dall'uomo: non sono sue proprie, ma vengono dall'esterno. Invece, ma questa è una differenza che si deduce e nel saggio non è sottolineata a sufficienza (perché comporterebbe una presa di posizione piuttosto netta riguardo i danni inflitti dal cristianesimo e dal monoteismo creazionista in generale all’uomo), nella cultura antica non cristiana l’eventuale intervento divino alla base della depressione o melanconia è più un topos letterario che una realtà in cui gli antichi credessero: si vedano gli scritti medici, sia greci che romani, in proposito. Se vogliamo scomodare il solito Walter Otto, potremmo dire assieme a lui che quando la cultura antica parla di un dio che infonde un pensiero in un uomo, è perché l’uomo sviluppa quel pensiero sulla spinta di una condizione esterna che definiamo attraverso una divinità: Atena sorge nell’uomo, è il momento numinoso che porta alla nascita del pensiero intelligente o strategico ma non è un’entità esterna che dà all’uomo quello che altrimenti non avrebbe. Questo vale per la cultura greca, ma tanto più per quella romana in cui le divinità esprimono un’azione anziché un concetto (differenza questa fondamentale tra le religioni greche e romane).
La cultura antica non cristiana è caratterizzata dall'equilibrio tra elementi diversi, la prevalenza di uno dei quali genera squilibrio e quindi patologia, ma tutti con eguale dignità nel mantenimento di un'armonia personale e sociale. La depressione, ci spiega Donatella Puliga, in latino è linguisticamente legata alla sfera del marcio, di qualcosa che sta fermentando per poi morire, azione questa espressa dalla dea di nome Murcia. Ma per i Romani il fermentato, nelle giuste dosi, era ottimo: un po' di garum, la celebre salsa ottenuta fermentando le interiora dei pesci, dava sapore e impreziosiva i piatti; troppo, o una salsa troppo fermentata, avrebbe rovinato tutto. Così Murcia, come tutte le divinità romane, ha un ruolo nel pantheon, ma quando domina da sola, senza Agenora che spinge ad agire e Stimula che toglie le inibizioni, e a sua volta può essere patologica se è da sola, fiacca l'animo dell'uomo.
Il saggio si struttura in sette capitoli, tutti ben corredati di bibliografia. Quelli fondamentali sono i primi quattro, più l’ultimo per le differenze tra le culture antiche e quella cristiana. Nel primo capitolo si dà uno sguardo alla melanconia nei testi greci, in particolare medici; nel secondo si affronta il problema della depressione nei testi latini, in particolare in Cicerone, Lucrezio e Seneca, da un lato individuando nei loro scritti delle testimonianze, dall’altro evidenziano le scelte linguistiche che ci dicono molto sul modo in cui quella che oggi chiamiamo depressione si collocava nel pensiero antico; nel terzo si parla (in realtà poco) della dea Murcia ma soprattutto dell’ambito semantico in cui si collocano le metafore antiche della depressione, appunto quella del marcio; nel quarto viene presentata un’altra metafora, quella del veternus, del consumato dal tempo. Seguono poi un intermezzo dedicato all’espressione inglese “black dog”, un capitolo sui Tristia di Ovidio, che però è abbastanza ripetitivo e non aggiunge niente di nuovo, una breve incursione nel diritto romano, se la melanconia di uno schiavo dia il diritto a chiedere un rimborso perché “difetto” che impedisce l’esecuzione del lavoro per cui lo si è acquistato, e infine un capitolo sulla depressione nei monasteri tardoantichi, in cui i sintomi depressivi vengono attribuiti all’accidia, che a partire da Evagrio Pontico trova una sua definizione diversa da quella antica (originariamente indicava l’incapacità di provare i sentimenti di lutto appropriati ad una cultura basata sul legame familiare, sulla stirpe) e una collocazione definitiva nei peccati capitali.

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