giovedì 9 ottobre 2014

Ancora sulla tradizione


Risistemando i volumi della biblioteca dove lavoro mi imbatto in un volume intitolato "Matronalia" sull’organizzazione religiosa delle donne nell’antica Roma. Il volume non l’ho letto, per cui vado in realtà solo per associazione di idee, e mi viene in mente un convegno WCER di 10 anni fa (quello di Anversa del 2005, per essere precisi). In quel convegno si cercò di stilare un primo documento rivolto alle istituzioni europee perché prendessero coscienza dell’esistenza di quelle che vennero chiamate religioni e tradizioni etniche e si discusse anche delle eventuali discriminazioni di genere che potessero esistere in queste religioni e tradizioni. In realtà, mi pare che il problema in merito sia sempre lo stesso, cioè quello di considerare la tradizione come qualcosa che proviene dai padri e la religione come ‘scollata’ dalla società moderna.
Quello che spesso, in materia di religioni politeiste, si manca di riconoscere è il fatto che tali religioni fossero espressione di un società ed intimamente legate ad essa: faccio sempre l’esempio di Varrone che nella sua opera sistemò le res divinae, le istituzioni divine, dopo le res humanae, le istituzioni umane, ben conscio del fatto che le prime fossero espressione delle seconde e slegate dalla realtà degli dèi o dal fatto che gli dèi si percepiscono nel mondo. Dall’incontro con la divinità nascono il mito e il culto, ma nascono dall’uomo che tale divinità incontra. Questo agli antichi era chiaro, meno a noi che riceviamo la tradizione antica attraverso un paio di millenni di incomprensione e il filtro di un modo di pensare completamente diverso da quello in cui erano nate le religioni antiche.
Ciò che quindi a noi oggi appare, in ambito religioso, come una discriminazione di genere, nelle epoche antiche era naturale frutto della società dell’epoca, come l’uccisione cruenta dei prigionieri di guerra che tanti equivoci ha generato sul concetto di sacrificio umano. Alcune cose normali per le società antiche oggi senz’altro sono discriminatorie, non vanno più bene, non si adattano più al nostro senso di giustizia e quindi sono state abolite. Perché dovremmo quindi mantenere certe differenze in ambito religioso?
Nell’antica Roma le donne non praticavano il culto di Ercole. Fatto salvo che non è possibile per questo attribuire all’antichità un culto femminile di Ercole, si biasimerebbe una donna che oggi, da politeista delle propria epoca, volesse tributare un culto al dio solo perché non esistono tradizioni in merito?
In questo modo finiremmo per considerare la tradizione in materia religiosa come qualcosa di immutabile e di conseguenza la religione come qualcosa che, a differenza della società, non può essere cambiata. Questo non è il concetto che sta alll base delle religioni politeiste antiche a cui la stessa tradizione che tiriamo in ballo vuole rifarsi. O dunque si ammette che si accetta una tradizione menomata dal legame con la società (e questo dev’essere per forza, anche solo per la proibizione di sacrifici pubblici cruenti…), ed epurata dello stretto necessario, o la si accetta del tutto incluso il suo legame con i valori, almeno con i valori scelti, della società in cui vive il pagano politeista. Solo così la tradizione religiosa diventa tradizione vera, non unidirezionale, non solo nel senso di ciò che viene trasmesso a noi, ma soprattutto nel senso di ciò che, consapevolmente, desideriamo trasmettere.