Io ascoltai in Atene Erode Attico, ex console, pronunciare un discorso in lingua greca, nella quale sorpassò di gran lunga in gravità ed eleganza di dizione quasi tutti gli uomini del nostro tempo. Egli parlava contro la apatheia (insensibilità) degli Stoici, provocato da un certo Stoico che l'aveva accusato di non sopportare né da saggio né da uomo forte il dolore per la morte di un fanciullo ch'egli amava. Di tale discorso, per quanto mi ricordo, il senso era il seguente: che nessun uomo, che sentiva e pensava normalmente, poteva andar esente ed esser completamente libero da tali emozioni dell'animo, che egli chiamava pathe (sensibilità), di fronte alla malattia, al desiderio, al timore, all'ira, al piacere; e se anche riuscisse a resistere sì che esse scomparissero, ciò non sarebbe un bene, perché lascerebbe l'animo languente e intorpidito e privato del sostegno di certe emozioni, quasi necessario stimolo. Egli diceva infatti che tali sentimenti e impulsi dell'animo, che quando eccedono divengon dannosi, sono connessi e radicati in certe forze e attività dell'intelletto, e perciò se imprudentemente li sradichiamo tutti, c'è il pericolo che perdiamo anche le qualità buone e utili della mente ad essi connesse.
Si deve perciò raffrenarli e epurarli con senso e moderazione, sì che soltanto quelli che appaiono contrari ed estranei alla natura e dannosi vengano rimossi, affinché non capiti quanto si narra che capitasse ad un tale della Tracia, stolto e rozzo, nel coltivare un campo che s'era comperato. "Un tale della Tracia," disse "di una remota regione barbara, ignorante nell'arte di coltivare i campi, essendo emigrato in regioni più civilizzate per il desiderio di una vita migliore, comperò un podere che produceva olio e vino. Non sapendo nulla della coltivazione della vita e degli alberi, avendo per caso visto un vicino che tagliava i rovi che crescevano alti e folti, e sfrondava fin quasi al vertice i frassini, e potava i germogli delle viti che dalle radici si diramavano sul terreno e amputava i ranpolli lunghi e diritti degli alberi da frutta e degli olivi, si avvicinò e chiese perché quegli facesse una tal strage di rami e fronde. Il vicino gli rispose: "Perché il campo sia più pulito e libero, gli alberi e le viti più produttivi". Allora, ringraziandolo, si allontanò dal vicino, lieto come se avesse imparato l'arte del coltivare. Prese falce e scure, quell'uomo ignorante cominciò a decapitare tutte le viti e gli olivi e le fronde più belle degli alberi e i più ricchi ceppi delle viti e tutti assieme gli arbusti e i virgulti adatti alla produzione della frutta e delle messi: tutto con i sarmenti e i rovi stroncò, nell'intento di purificare il campo, avendo appreso a rovinoso prezzo un'audacia e acquisita la sicurezza nell'errore attraverso una falsa imitazione. Così" aggiunse " questi seguaci dell'apatia, che desiderano essere calmi, intrepidi, immobili, senza desideri, senza dolori, senza ira, senza piacere, avendo amputato tutti i più vigorosi moti dell'animo, invecchiano nel torpore di una vita inerte e snervata."
Mi piaceva il senso del discorso, e ve l'ho riportato.
Mi piace chiamare gli atei "cristiani che non credono in Dio".
RispondiEliminaGiulia
Mi scusi, avrei voluto pubblicare il commento sopra sotto "La potenza più grande del cristianesimo".
RispondiEliminaGiulia