mercoledì 9 novembre 2011

Perché non possiamo non dirci politeisti

Soltanto agli Dèi è permesso di essere "monolitici". Solo gli Dèi possono essere il tutto e l'assoluto di una certa cosa o processo psicofisico-relazionale (vedi il post precedente sulla definizione di che cosa è un dio).
All'essere umano non è concesso, pena quello che nella letteratura antica è descritto come ira del tale dio o della tale dea. Pensiamo alla vicenda di Ippolito: tutto dedito alla dea Artemide in quanto cacciatore, non solo trascura, ma disprezza Afrodite e ne cade vittima. Per dirla con Jung, un dio trascurato si ripropone come sintomo: la letteratura rende esplicito un processo interiore.
L'essere umano non può emulare in tutto e per tutto una divinità, non può rendersi, per usare sempre parole jungiane, archetipo, ma avrà sempre una struttura complessa sia dal punto di vista psicofisico-emotivo che dal punto di vista relazionale. Questa struttura complessa si riflette nella struttura di un pantheon politeista, dove ciascuno degli Dèi è anche una delle innumerevoli linee che trova il suo crocevia negli esseri viventi. In questo senso non possiamo non dirci politeisti.
Questo è vero dal punto di vista di una concezione/percezione pagana politeista del mondo. Non ha a che vedere con il culto o l'omaggio delle figure o rappresentazioni divine, a scanso di equivoci e polemiche con i pagani che praticano culti enoteistici (per chi avesse poca confidenza con il greco, specifico: il monoteismo prevede l'esistenza di un solo e unico dio, negando l'esistenza di altre figure, mentre l'enoteismo ha a che fare con il culto di un dio che non è l'unico esistente, ma il più importante o "il preferito"; la precisazione è necessaria per evitare polemiche che non voglio sollevare: questo non è affatto, ripeto, un post relativo alle soggettive pratiche di culto).

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