sabato 11 luglio 2009

Borges e il crepuscolo degli dèi

Ho cominciato a leggere un libro, La sopravvivenza degli antichi dei, di Jean Seznec (Bollati Boringhieri, 2008). Tralascio la spiegazione dell’argomento del libro (magari, ma lo dico sempre e poi lo faccio dopo un po’ di tempo, metterò la recensione sul blog di Ritorno ad Alessandria) per arrivare subito al dunque, a quello che mi ha colpito. Alla fine della presentazione del libro, firmata da Salvatore Settis c’è una citazione da L’artefice di Jorge Luis Borges:
Il luogo era la facoltà di Lettere e Filosofia; l’ora, il crepuscolo. Tutto (come suole accadere nei sogni) era indistinto; le cose erano leggermente alterate e come ingrandite. Leggevamo auctoritates; io parlavo con Pedro Henrìquez Ureña (…) Bruscamente, ci stordì un clamore, di manifestazione o di musici ambulanti. Grida umane e animali giungevano dal Basso. Una voce gridò: “Vengono!”, e poi “Gli dei! Gli dei!” Quattro o cinque esseri uscirono dalla turba e occuparono la pedana dell’aula magna. Tutti applaudimmo, piangendo; erano gli dei che tornavano, dopo un esilio di secoli. Ingigantiti dalla pedana, la testa gettata all’indietro e il petto in fuori, ricevettero superbi il nostro omaggio. Uno reggeva un ramo, che senza dubbio si addiceva alla semplice botanica dei sogni; un altro, con largo gesto, protendeva una mano che era un artiglio; una delle facce di Giano guardava con diffidenza il becco ricurvo di Thoth. Forse eccitato dai nostri applausi, uno, non so più quale, proruppe in uno strido vittorioso, incredibilmente aspro, qualcosa tra il gargarismo e il fischio. Le cose, da quel momento, cambiarono.
Tutto cominciò col sospetto (che forse era eccessivo) che gli dei non sapessero parlare. Secoli di vita fuggitiva e ferina avevano atrofizzato quello che in essi c’era di umano; la luna dell’Islam e la croce di Roma erano state implacabili con questi profughi. Fronti basse, denti gialli, baffi radi di mulatti o cinesi e musi bestiali rendevano evidente la degenerazione della stirpe olimpica. Le loro vesti non corrispondevano a una povertà decorosa e onesta, ma al lusso deplorevole delle bische e dei lupanari dei bassifondi. A un occhiello rosseggiava un garofano sanguigno; sotto una giacca attillata s’indovinava la sporgenza di un pugnale. Bruscamente, sentimmo che giocavano l’ultima carta, che erano astuti, ignoranti e crudeli come vecchi animali da preda e che, se ci fossimo lasciati vincere dalla paura o dalla compassione, avrebbero finito col distruggerci.
Estraemmo le pesanti rivoltelle (d’improvviso ci furono rivoltelle nel sogno) e gioiosamente demmo morte agli dei.

La scena è un sogno e come ben si sa nei sogni proiettiamo le nostre emozioni e qualche volta lo facciamo anche sulle persone. Il sogno di Borges ben si presta ad una lettura pagana, sul rapporto tra uomini e dei.
L’uomo di oggi non è in grado, leggo io in Borges, di rapportarsi con gli dei. L’uomo di Borges è chiuso nella lettura delle auctoritates, in latino le autorità, cioè i libri autorevoli. Si dice di autori e opere che sono particolarmente importanti in una certa materia, ma nel Medioevo si trattava di autori e opere contenenti la verità sul mondo. La Bibbia era l’auctoritas per eccellenza. Così quando gli dei arrivano gli uomini stanno cercando e discutendo una verità sul mondo senza sperimentare il mondo; all’arrivo degli dei, nessuno di questi studenti scende a vedere che succede. Cinque dei salgono sulla pedana della cattedra e vengono omaggiati, ma in realtà nessuno si mette in relazione con loro. E quando uno degli dei, Pan probabilmente, lancia il suo grido, nessuno lo capisce più. A questo gli studenti non erano preparati e anzi pensano che gli dei non sappiano parlare. Ma sono loro che non sanno parlare o gli uomini che non li sanno ascoltare? Sono loro che hanno perso le caratteristiche umane o sono gli uomini che non li hanno più vissuti?
L’errore è stato di metterli in cattedra: al richiamo degli dei, al loro fragore, gli studenti, simbolo dell’umanità, non scendono a vederli, ma li aspettano in aula e li mettono su un piedistallo, aspettando da loro la rivelazione che prima cercavano nei libri (e faccio notare che sono tutti divinità maschili). Ma se la religione greca è, come diceva Walter F. Otto, religione della realtà, perché è nella realtà circostante che si ha la teofania, l’apparizione degli dei, che si percepiscono nelle e attraverso le forze del mondo, discorso che può essere esteso a tutte le religioni pagane, allora questi dei che Borges vede in sogno su una cattedra dell’università sono al posto sbagliato. L’umanità che pure vorrebbe recuperarli non è in grado di recuperare gli dei, ma solo la loro forma e una forma “corrotta” da “la luna dell’Islam e la croce di Roma”. La religione monoteista prima e le nazioni monoteiste poi hanno piegato la forma degli dei ai loro scopi, demonizzandoli in parte (alcuni dei hanno “musi bestiali”) e utilizzandoli come allegorie nel migliore dei casi, arricchendone la forma di significati ma appesantendola con significati non propri: ecco il “lusso deplorevole” di cui gli dei sono vestiti, il garofano, il pugnale, che possono anche essere interpretati in altro modo, nel senso cioè che appaiono come il monoteismo li ha dipinti, come immagini del vizio, o, ancora, come immagine della violenza con cui gli dei appaiono agli uomini, una violenza che però in questo contesto può essere espressa solo in senso monoteista (non la forza con cui le onde del mare si infrangono sulla scogliera, ma la violenza assassina, il pugnale). Essi non sono più gli dei degli antichi, ma anche l’umanità non è più la stessa. Ma mentre gli dei si sono in parte adattati alla società (hanno facce “mulatte”), gli uomini non sono in grado di rapportarsi ad essi come ci si dovrebbe rapportare con le forze del mondo. Del resto, chiusi nell’università, che mondo avrebbero potuto sperimentare? E così trattano gli dei come il dio cristiano, che viene posto su un piedistallo, al di sopra di tutti e da cui ci si aspetta rivelazione e giudizio. Quello di sostituire un dio con molti dei è un pericolo reale nel paganesimo attuale, che può essere scongiurato solo con la comprensione della profonda differenza tra quel dio e gli dei pagani, cosa che alcuni pagani tendono a trascurare temendo forse di eccedere nella teoria a scapito della vita, ma così perpetrando la separazione tra mente e corpo che dovrebbe essere più tipica delle religioni monoteiste.
E’ nei confronti del dio monoteista che si prova paura; è nella religione monoteista che si prova compassione ma nel senso di commiserazione, di pietà nel senso peggiore del termine, la pietà sterile, non nel senso latino della parola che indica il rispetto verso gli dei così come verso gli altri uomini. Ma mentre il dio cristiano è distante, anche gli uomini di Borges capiscono in qualche modo che questi dei non lo sono, che sono passioni ed emozioni in grado di distruggere gli uomini, se questi le affrontano con paura o con quel senso di superiorità che deriva dalla commiserazione. Ecco perché all’uomo non resta che distruggere questa immagine degli dei che si è creato (non dimentichiamo infatti che si tratta di un sogno e tutto ciò che sogniamo è una nostra proiezione) e questa azione viene fatta con gioia e senza averla desunta da qualcuna delle auctoritates che gli studenti leggevano all’inizio. Si spara agli dei, o meglio a quella loro immagine, non perché le auctoritates dicono di farlo, ma come scelta deliberata basata su un istinto, un’emozione, una percezione che nasce dentro gli uomini. Ma gli dei qui rappresentano appunto le passioni, le emozioni, perciò gli uomini, sparando alla falsa immagine degli dei, in realtà scelgono in favore dei veri dei, quelli che vivono nei loro cuori e in nome di ciò agiscono.
Un pagano dovrebbe allo stesso modo rifiutare l’immagine degli dei che gli viene proposta dal monoteismo e scoprire la vera natura degli dei pagani, non importa a quale tradizione pagana appartengano. Un’altra interpretazione che si può dare a tutto il sogno è che quegli dei così conformati a quello che il mondo monoteista (la luna, la croce, ma anche gli studenti che li mettono sul piedistallo in attesa della rivelazione) e così trasformati da esso non siano altro che il tentativo del monoteismo stesso di sopravvivere in altre forme, conservando la sostanza del monoteismo (la rivelazione, la dipendenza dal divino, la paura e, in definitiva, la distruzione del futuro del genere umano) anche se non la forma.
Comunque sia, con quello sparo, gli dei vincono. Sempre che l’umanità non si ostini a trovare qualcos’altro da mettere sul piedistallo invece di vivere.

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